Il saluto nel paese del Sol Levante
Dopo avere fatto una serie di considerazioni sul saluto, sento il
bisogno di esplorare meglio, le differenze che vi sono tra quello che
si esegue nel mondo occidentale, di cui ho già avuto modo di
parlare e quello che si esegue nel mondo orientale e
specificatamente nel paese del sol levante.
In particolare, in Oriente si saluta qualcuno, congiungendo le mani
e facendo un inchino, mentre in Occidente si stringe la mano.
Partiamo dal fatto che congiungere le mani è un gesto da sempre
associato all’atto della preghiera, e per le varie religioni questa è
una semplice azione colma di significato. Quindi questo semplice
gesto nasce in un contesto di grande spiritualità.
Il monaco buddhista giapponese Shunmyo Masuno spiega questo
gesto millenario con poche, sagge parole:
“Unendo i palmi delle mani, stimoliamo un senso di grande
gratitudine. Non c’è spazio per il conflitto. Non possiamo attaccare
qualcuno quando abbiamo le mani giunte, no? Una scusa offerta in
questo modo placa subito la rabbia o l’irritazione. Qui risiede il
significato del gassho”
La mano destra e la mano sinistra collegate rappresentano l’unione
dell’intelletto e del cuore, del pensiero e del sentimento, quindi unire
le mani corrisponde a riunire noi stessi, la parte destra e la parte
sinistra, la mente con il cuore, il corpo con lo spirito.
In poche parole, quando saluti qualcuno con le mani giunte stai
dicendo: “Mi inchino al Divino che è in te”, ti offro il mio cuore, non ti
farò del male e non nascondo niente.
Al contrario la stretta di mano é nata per accertarsi che il convenuto
non stia portando un’arma nella destra, per essere sicuri di non
avere di fronte un nemico.
E’ brutto da dire ma stringere la mano è un gesto nato in Occidente
a causa della scarsa fiducia nel prossimo.
L’inchino come forma di ossequio e più tardi di saluto è presente in
numerose culture, in quelle orientali è universalmente diffuso; in
Giappone assume una caratterizzazione formale durante il Periodo
Muromachi – quella lunga epoca della storia giapponese che vide
l’ascesa al governo della classe militare attraverso un succedersi di
Shogun. Intorno alla prima metà del 1600 Durante il Periodo Edo gli
Ogasawara, una potente famiglia, istruirono l’élite dello shogunato
nei sottili scambi di etichetta mediante un esauriente codice: in esso
venivano spiegati i rituali per eventi annuali, la disposizione dei
mobili, come modificare e piegare i vestiti, come scrivere
correttamente la corrispondenza, come mangiare in modo corretto,
come incartare i regali, e molto altro ancora. L’etichetta non era
semplice ostentazione, bensì un mezzo con cui il samurai poteva
muoversi in sicurezza tra gli uomini d’arme segnalando al contempo
la sua mancanza d’intenzioni ostili nei confronti di chi gli stava
accanto.
Quindi in un paese nel quale ogni cosa ha una sua precisa
fenomenologia e metodologia dove l’etichetta è estremamente
importante non poteva mancare uno specifico manuale “i Sette
Volumi dell’Etichetta Ogasawara” offrono una spiegazione autentica
sulla grazia e sull’educazione della classe guerriera.
Che l’inchino come forma di saluto e di rispetto, derivi dagli usi
della religione shintoista, o che sia stata introdotta dalla famiglia
Ogasawara a partire dal Periodo Kamakura (1185 – 1333)
attraverso una guida completa sull’etichetta sia marziale che
cerimoniale, il punto su cui tutte le teorie concordano è che l’inchino
abbia assunto in Giappone un significato più profondo rispetto ad
altre parti dell’Asia.
Inizialmente limitato alle cerimonie tradizionali e alle arti marziali, i
suoi ambiti di applicazione si sono via via moltiplicati fino a divenire
parte integrante della vita di tutti i giorni; proprio per l’importanza
culturale che ricopre, l’atto dell’inchino si presenta in diverse e per
noi, infinite varianti, ognuna con un significato a sé.
Il Giappone a mio avviso è un paese caratterizzato da un genuino
rispetto, forse, in qualche caso esagerato per i nostri canoni, un
gusto carico di decorazioni, abbellimenti, ornamenti e addobbi, su
ogni aspetto delle relazioni sociali, tendenti a ingenerare una
reazione di sincero ossequio, riguardo e a volte devozione. Un
paese nel quale Il codice di leggi che il samurai faceva proprio non
regolava soltanto il comportamento sul campo di battaglia, ma
anche l’etichetta all’interno del clan e nei confronti del
capo. Nel bushido si esaltavano, infatti, i valori che un samurai
doveva dimostrare a se stesso e pubblicamente e dalla loro
applicazione nasce quindi la sua figura “romantica”, la cui esistenza
ruotava attorno al totale rispetto dei valori di onestà, lealtà, giustizia,
pietà, dovere e onore, valori che dovevano essere perseguiti in ogni
istante della vita, fino alla morte.
Se volessimo paragonare la ricercatezza della precisione nei
movimenti il simbolismo e l’enfatizzazione del singolo atto non fine
a se stesso, ma come unione della componente fisica con quella
mentale che si fondono in una predeterminata sequenza di gesti
per raggiungere la più elevata condizione spirituale e le oltre 30
locuzioni di saluto, da quelli più formali, a quelli meno formali,
amichevoli, di lavoro , per incontri d’affari o con i colleghi, alle varie
forme di inchino, da quello in ginocchio seduti sui talloni, a quello
con 1 solo ginocchio, o in piedi con una genuflessione di 15 gradi,
30 gradi, 45 gradi, 90 gradi, con varianti se eseguito da una donna
o da un uomo, e mille altre forme di devozione e rispetto, ecco che
potremmo paragonare, ma solo per un istante queste formule di
cortesia giapponesi al nostro occidentalissimo Erasmo da
Rotterdam, grande protagonista dell’umanesimo, che esagerando
un po’ può fornirci un’idea di quanto contasse la distanza
gerarchica nella salutatio dell’ars retorica:
“Al magnifico Signore, all’aurea luce delle sette arti liberali, corona
radiosa dei teologi, eterna luce della religione, Espero dell’ordine
dei Domenicani, tesoro del vecchio e del nuovo Testamento,
fustigatore degli eretici, chiarissimo specchio di ogni eroica virtù – al
mobilissimo padrone, al Signor maestro, bacia i piedi in segno di
saluto, il più infimo discepolo e umilissimo servitore della Sua
Maestà!”
A mio avviso i giapponesi riescono ad esprimere con il movimento
del corpo quello che gli occidentali esprimono con il movimento
della lingua. In ambedue i casi il risultato è lo stesso, ma mentre nel
caso degli occidentali ciò che si vuole comunicare parte dal
cervello, nel mondo del Sol Levante parte dal cuore.